Tiro da tre punti, croce e delizia: Dan Peterson ha aperto la discussione chiedendone l'abolizione. Della Valle, Ruzzier e Veronesi fanno fronte comune: abolendolo si darebbe molto più peso alla fisicità degli atleti
Generazioni a confronto sul canestro della discordia
di Giovanni Bocciero e Alvise Baldan*
1984, A LIVELLO INTERNAZIONALE viene introdotto il tiro da tre
punti nella pallacanestro. L’arco semiellittico viene disegnato su ogni campo
da gioco, e il tirare con conseguente realizzazione vale un punto in più
rispetto al semplice appoggio al tabellone o al tiro dalla media distanza. Una
novità, una evoluzione, con tutti i suoi pregi e difetti. Questa invenzione, in
realtà, era già stata sperimentata anni prima negli Stati Uniti, in particolare
al college. È da anni che si discute di un suo forte abuso, a discapito del
gioco che rende il basket il più bello sport al mondo. Dan Peterson ha
recentemente dichiarato che lo abolirebbe, e a riguardo abbiamo ascoltato
giocatori e allenatori, attuali e del passato, che su questa affermazione sono
ampiamente divisi.
Amedeo Della Valle
Cosa pensi in merito alla dichiarazione di Dan Peterson che
abolirebbe il tiro da tre punti?
«Ci sta che ognuno dica la propria opinione. Secondo me, la sua è
stata una sorta di provocazione che credo sia difficile possa trovare un
seguito nel basket moderno. Se togliamo il tiro da tre punti, forse, molto
probabilmente le partite diventano un susseguirsi di spallate vicino al
canestro. Quindi è evidente che la pensi diversamente rispetto a questo
argomento».
Da tiratore, cosa ti passa per la testa se realizzi un filotto di
canestri da tre punti, o al contrario ne sbagli tanti di seguito?
«Chiaramente come per qualsiasi cosa, quando funziona e va bene è
molto più facile continuare a farle. Quando invece diventa complicato è molto
più difficile ripeterlo. Penso però, che la forza di un tiratore s veda proprio
nel momento di difficoltà, nel continuare a tirare e non rifiutare conclusioni.
Quello è il più grande segno di un eccellente tiratore, che può fare una serata
da 8/8 ma può farne anche una da 0/8».
Quale potrebbe essere un aggiustamento per far incidere magari
meno il tiro da tre punti?
«Ad oggi proverei innanzitutto ad allargare il campo, visto gli
atleti che calcano i campi. La pallacanestro potrebbe giovare di questa
modifica, ma non dobbiamo dimenticare che il gioco è in continua evoluzione.
Infatti, oggi stiamo vivendo la fase del tiro da tre punti, in passato altri
stili di gioco, e in futuro cambierà ancora in base alle tendenze del momento».
Michele Ruzzier
Dan Peterson abolirebbe il tiro da tre punti, tu cosa ne pensi?
«Io personalmente non lo abolirei, e non la trovo una cosa giusta
perché è l’evoluzione della pallacanestro. Rappresenta per ogni squadra un’arma
in più, a maggior ragione per la fisicità che si vede oggi su un campo. Un
giocatore deve tirare per forza bene da tre punti per cercare di aprire le
difese. Il basket è uno sport in continua evoluzione, completo così com’è con
il tiro da tre punti».
Il tiro da tre punti è ormai trasversale, nel senso che è un’arma
sia per un esterno che per un lungo?
«È un’arma sulla quale c’è bisogno comunque di lavorarci. E se
diventi bravo, è giusto che la sfrutti a tuo vantaggio. Ed oggi non dipende
neppure dai ruoli. Prima, magari, il tiro da tre era usato di più dalle guardie,
ma oggi lo possono fare anche ragazzi di 2,20 metri. E credo che sia una cosa
positiva, e non certo negativa».
Quanto influenza segnare o sbagliare una serie consecutiva di
conclusioni?
«Non so esattamente in che percentuale, ma oltre all’allenamento
il tiro è tanto mentale. Se segni una tripla e ti capita subito un altro tiro
aperto, che è giusto, devi prenderlo assolutamente. Dall’altro lato, anche se
ne hai sbagliati un paio prima, ma la squadra costruisce un buon tiro e la
palla arriva a te, è comunque da prendere. Magari sentirai il pallone pesare un
po’ di più, ma è certamente giusto tirare».
Hai giocato con Marco Belinelli, uno dei migliori tiratori
italiani in assoluto, cosa ci puoi raccontare di lui?
«Quando ero alla Virtus lo guardavo con gli occhi a cuoricino,
perché era davvero uno spettacolo vederlo anche solo in allenamento. Non l’ho
mai visto fare esercizi particolari per allenare il suo tiro. Semplicemente ha
una mentalità diversa, pensa di segnare ogni singolo tiro che prende. Questo fa
di lui un pericolo costante, perché anche se ha sbagliato i tre tiri
precedenti, prenderà il quarto con la stessa sicurezza di chi è in striscia
positiva».
Giovanni Veronesi
Abolire il tiro da tre punti, per Peterson, gioverebbe al basket.
Per te?
«È normale che rispetto al basket di Peterson oggi si giochi
un’altra pallacanestro. Ci sono spaziature e situazioni diverse, complice
l’evoluzione del gioco. Ovvio che non cambierei nulla».
Cos’è che differenzia un tiratore, che segni o sbagli?
«Per un tiratore è importante non perdere mai la fiducia, perché
altrimenti non può neppure definirsi un tiratore. E infatti, ci sono tanti
giocatori che hanno magari vissuto soltanto un periodo felice. Nel mio caso
posso dire di avere avuto sempre grande fiducia, sia da parte di allenatori e
compagni che a livello personale nei miei mezzi. Poi è naturale che ci sono
momenti positivi e altri negativi, ma bisogna sempre avere il coraggio di
continuare a tirare, senza esagerare».
Il tiro da tre punti serve più allo spettacolo che al gioco?
«Credo che bisogna fare una distinzione tra il basket che si vede
in Nba e quello in Europa. In America effettivamente si tira tanto da tre
punti, e il più delle volte in situazioni del tutto estemporanee al gioco. In
Europa no, perché anche se si abusa del tiro da tre, questo rientra più in un
contesto di costruzione del gioco. O almeno questo è il mio pensiero. Poi
ovvio, se la pallacanestro ha un successo planetario ed è seguita in tutto il mondo
è anche per giocatori come Steph Curry e Klay Thompson che sono tra i migliori
interpreti del tiro da tre punti».
Valerio Bianchini
Qual è il suo pensiero riguardo all’uso del tiro da tre punti
nella pallacanestro di oggi?
«Il tiro da tre punti lo ricordo addirittura come un’innovazione che fece l’Aba (American Basketball Association, lega professionistica americana di pallacanestro tra il 1967 ed il 1976, ndr), usandolo inizialmente in circostanze speciali, come per esempio cercare di recuperare alla fine della partita. All’inizio non era considerato un elemento istituzionale del gioco, era un elemento normale. Ricordo che nell’84/85 Mike D’Antoni, che normalmente non era un gran attaccante, grazie ai blocchi di Dino Meneghin cominciò a tirare con i piedi per terra perché i difensori uscivano poco, restando così schiacciati sul blocco. Iniziò così ad avere più coraggio, più iniziativa, diventando un tiratore dall’arco. Per molti anni il tiro da tre punti rimase utilizzato in certe circostanze, non nel modo ossessivo odierno. Addirittura anche i lunghi cominciarono, tramite il pick and roll, a preferire il tiro da più lontano piuttosto di un appoggio da dentro il pitturato. Questo sinceramente rende il gioco un po' noioso, ripetitivo. Gli allenatori hanno smesso di fare ricerca, di fare sperimentazione. Nel basket classico il gioco delle squadre in campo veniva immediatamente identificato per l'allenatore che lo governava. Per esempio il gioco di Guerrieri, di Zorzi, di Peterson. C'era molta più coerenza tra la teoria del gioco di un allenatore rispetto all’esecuzione in campo. Adesso, invece, c’è un’omologazione dove la maggior parte gioca allo stesso modo. C'è da dire, però, che la pallacanestro ha reso ancora più imprevedibile le partite. L’altra faccia di questa medaglia è che non c’è più meritocrazia, tu puoi giocare benissimo ma se hai scarse percentuali al tiro da tre perdi la partita contro uno che sta giocando male ma con buone percentuali da tre. A portare a questa deriva tecnica un po' insensata è stata la Fiba e il suo regolamento, perché il basket concettualmente è sempre stato un gioco che ogni quattro anni cambiava il suo regolamento. Il gioco si adeguava allo sviluppo sociale dell'area popolare in cui era inserito e variava soprattutto in relazione ai marchingegni tecnici. La Fiba si riduce a seguire l’Nba, ma senza una ragione. Nello smile, nei trenta secondi, nello stesso tiro da tre, non seguendola, però, nei tre secondi difensivi che sono importanti per consentire la penetrazione nell’uno contro uno. Attualmente il gioco si sta riducendo sempre di più all’uso scriteriato del pick and roll, alla cancellazione del lavoro in post, sia alto che basso, ed al rifugio nel tiro da tre. Certamente non è questo il vero basket».
Nelle sue
esperienze tra Cantù e Roma, ha vinto due scudetti e due Coppe dei Campioni
senza il tiro dalla lunga distanza. Dopo l’introduzione di questa nuova regola
è stato più facile o più difficile allenare?
«È stato più facile allenare perché il tiro da tre era utilizzato senza, tuttavia, diventarne dipendenti. Adesso per gli allenatori è più facile. Non insegnano più i movimenti sofisticati del post basso ai pivot, per passare più volte la palla fuori per un tiro da tre. Dal punto di vista estetico è una cosa inguardabile, però la situazione è questa. Conta solo l’uno contro uno, il gesto spettacolare della superstar della squadra».
Ha un aneddoto da raccontarci legato al tiro da tre punti?
«Quello più clamoroso fu con la Virtus Roma, durante la stagione 1990/91, quando eravamo sotto di due punti contro Caserta ad un secondo dalla fine. Ricordo una rimessa a bordo campo per Maurizio Ragazzi che, ricevuta la palla a tre metri dalla nostra linea di fondo, segnò il canestro della vittoria».
Bogdan Tanjevic
Cosa ne pensa del tiro da tre punti?
«Il mio pensiero è molto simile a quello di Dan Peterson. Penso sia meglio il vecchio modo di giocare piuttosto che il continuo aumento del tiro dalla lunga distanza. Si è arrivati addirittura a parlare dell’inserimento del tiro da quattro. Negli ultimi vent’anni i giocatori sono diventati dei grandi tiratori e le distanze, soprattutto grazie all’atletismo, sono diventate facili da eseguire. In Nba fino a trent’anni fa esistevano solo tre o quattro tiratori nel campionato. Adesso sono diventati centocinquanta. Un pro può essere legato ai giocatori europei, un esempio di tecnica di tiro e di precisione che arrivarono ad un livello fantastico di capacità del tiro dalla lunga distanza. Dei contro, invece, possono essere il poco gioco sotto canestro, il mancato utilizzo dei pivot, le poche penetrazioni ed il tiro da quattro metri dei campioni come Jordan e Dalipagic. In passato i grandi tiratori non si concentravano esclusivamente sul tiro da tre punti e il gioco era molto più interessante, più affascinante. Adesso si è talmente fissati nel trovare qualcuno di libero fuori dall’arco, di scaricargli la palla anche quando sarebbe molto più intelligente segnare due punti sicuri. La linea dei tre punti la chiamo il “bordo della piscina”, come se ci fosse dell’acqua dentro. Non bisogna entrarci troppo. Questa furia di tirare e di correre in avanti non la vedo bene. Mi piace di più il basket di prima».
Il tiro da tre punti è diventato una sorta di arma offensiva, diciamo, troppo abusata, troppo utilizzata?
«Troppo abusata, non c'è dubbio. Si vedono molte squadre che tirano più da tre punti che da due. Così il gioco diventa meno attrattivo. In poche parole non bisogna focalizzarsi troppo sul tiro da tre. Per fare un esempio, quando Dalipagic segnò settanta punti lo fece con soli quattro canestri da tre punti in tutta la partita. Poteva tranquillamente essere il capocannoniere Nba, se ci fosse andato».
Antonello Riva
Qual è la sua opinione sul tiro da tre punti?
«Nei primi
anni ci fu un grande clamore che richiamò tanta attenzione attorno a questa
nuova regola, al nostro movimento.
Se poi, dopo tanto tempo, dobbiamo analizzare se è stato un pro o contro, i dubbi sono aumentati. Una cosa su tutti: il gioco è stato veramente stravolto e in maniera netta. Mi ricordo gli anni in cui giocavo a Milano quando era allenata da Mike D’Antoni. Lui sosteneva che statisticamente non conveniva andare a tirare da due ma conveniva tentare più tiri possibili dalla linea dell’arco. Ed è proprio questo, come stavo dicendo, che ha stravolto il modo di giocare. Il tiro da due, il cercare di andare vicino al canestro è praticamente quasi sparito. Poi, ecco, bisogna vedere se è effettivamente più spettacolare, più bello da vedersi oggi, o se era più bello un tempo quando non c’era il tiro da tre e si cercava di costruire maggiormente il gioco d'attacco».
Lei pensa, dunque, che sia diventato una sorta di arma offensiva un po' troppo abusata?
«Sì, in particolar modo perché questa linea non è così lontana dall’Nba. Vediamo diversi giocatori tirare da addirittura nove o ancora più metri. Mantenerla così com’è, oggi in Italia, è troppo utilizzata. Penso, tuttavia, che per lo spettacolo e per gli spettatori, vedere un tiro o un canestro da tre sia sempre un gesto tecnico spettacolare, anche se ha tolto un pochino la vera essenza, la vera sostanza della pallacanestro».
Se lei fosse un giocatore di questi tempi, si adatterebbe al modo di giocare attuale, ad un ritmo più elevato e a un numero maggiore di tiri da tre punti, o cercherebbe di rimanere al gioco di qualche anno fa, dove il tiro da tre punti non era così esasperato e si puntava un po' di più al gioco tecnico?
«No, è naturale che bisogna sempre adeguarsi ai tempi. Se fossi un giocatore di questi tempi mi adeguerei sicuramente alle nuove situazioni. Però vedo che alcune volte i giocatori, che potrebbero fare un arresto e tiro tranquillo dai tre, quattro metri, vanno dritti al ferro o cercano la soluzione nel tiro dalla lunga distanza. Negli anni passati, si utilizzava la finta da tre punti, un palleggio, due palleggi ed un arresto, ripeto a tre o quattro metri. Questo movimento oggi è sparito completamente».
Un’ultima domanda: ha un aneddoto su questo argomento da raccontare?
«Mi ricordo ancora benissimo la prima partita quando era appena entrato in vigore. Era la prima partita del campionato 1984/85, successivo alle Olimpiadi di Los Angeles, quando con Cantù andai a giocare a Pesaro che al tempo aveva un allenatore americano che si era messo a difendere a zona. Non mi sembrava vero e quel giorno realizzai nove o dieci canestri da tre punti. Da un momento all’altro ci aspettavamo che Pesaro passasse a difendere individualmente, invece continuò con la difesa a zona. Era la prima partita, la prima volta che venivano conteggiati i tiri al di là dell'arco. Era, in poche parole, una novità».
Nonostante
le differenti posizioni, le statistiche ci possono offrire degli spunti
interessanti. Perché non sempre tirare e segnare tanto ti permette di vincere.
Trento e Varese, ad esempio, sono le due squadre della serie A che hanno
terminato il maggior numero di partite con almeno dieci triple segnate, eppure
le posizioni in classifica sono molto differenti. In media una giusta
percentuale dall’arco che si può ritenere positiva è del 35%, che significa
poco più di una realizzazione su tre tentativi. Eppure con due canestri su tre
dalla media distanza o addirittura più vicino al canestro, e dunque con una
probabilità maggiore di riuscire a segnare, frutterebbe 4 punti. Che
batterebbero i 3 realizzati dall’arco.