venerdì 10 marzo 2017

Il grande ritorno: Mike D'Antoni

Mike D'Antoni e le 4 vite di Arsenio Lupin


di Giovanni Bocciero*


Riva: «Mike sfortunato, ma mai un perdente»

Il grande ritorno. Nella grande stagione di Houston, il personale
riscatto di Mike dopo le delusioni e le brutte esperienze
con i New York Knicks ed i Los Angeles Lakers
Se si guardano immagini delle diverse squadre allenate da Mike D’Antoni, si farà caso che i dettami tattici sono pressoché gli stessi da anni ormai. Dagli inizi in quel di Milano e Treviso, all’approdo in NBA dove è stato seduto sulle panchine di Denver, Phoenix, New York, Lakers e Houston. Con risultati alterni ma pur senza snaturare la propria idea cestistica, ovvero quella di correre in campo aperto, difendere allo stremo e tirare velocemente. «È sempre stato il suo credo - ha rivelato Antonello Riva -. Ricordo che per aumentare i possessi offensivi avevamo messo la regola che dopo qualsiasi canestro segnato pressavamo l’avversario per ritornare immediatamente in possesso del pallone. Oppure lo obbligavamo a velocizzare il proprio attacco. Facevamo tanti esercizi in allenamento proprio per velocizzare il nostro modo di andare a canestro». Uno stile di gioco che lo ha bollato come perdente oltreoceano, fin quando non sono esplosi i Warriors. «Inutile dire che soprattutto per gli allenatori non dipende unicamente dal proprio operato, ma prima di tutto dal rendimento dei giocatori e poi soprattutto dalla situazione societaria. Credo ad esempio - ha continuato l’ex Milano - che a New York sia arrivato nel momento peggiore della franchigia a livello di struttura societaria. È semplicemente capitato al posto sbagliato nel momento sbagliato perché le qualità di Mike non si discutono dopo tutti gli anni trascorsi in Italia e in NBA. E oggigiorno lo reputo uno dei migliori allenatori al mondo». La fiducia è un aspetto imprescindibile? «Una delle qualità di Mike è quella di mettere a proprio agio i suoi giocatori. Il fatto di essere stato un grande atleta è per lui un vantaggio, perché - ha concluso il bomber - lo aiuta a capire psicologicamente il giocatore che ha di fronte».


Pittis: «È un campione, con le sconfitte cresce»

Affinché le squadre di Mike D’Antoni rendano al massimo c’è bisogno che i giocatori dispongano della necessaria disponibilità nei suoi confronti. «Noi avevamo totale fiducia in Mike - ha dichiarato Riccardo Pittis -. Non avevamo alcun dubbio che le scelte prese fossero buone». L’ala ex Milano e Treviso fu l’oggetto della rivoluzione tattica, ovvero il primo esempio di small ball. «Sia per l’esigenza di coprire una posizione dove mancava un giocatore di ruolo, che per provare qualcosa di diverso, Mike decise di spostarmi da ‘3’ a ‘4’. L’esperimento, che era più una opzione e non una norma, funzionò talmente bene che lo ha fatto suo». Per vincere D’Antoni deve sentire che i giocatori sono con lui, perché «come in ogni situazione e per ogni persona, quando il gruppo ti segue diventa più facile mettere in pratica le tue idee. Questo ambiente - ha raccontato Pittis - si creò a Milano e Treviso, e sono certo che è così a Houston come prima ancora a Phoenix. Per quanto riguarda le esperienze di New York e Los Angeles, non è che le sue idee non abbiano funzionato, semplicemente erano delle situazioni particolari con squadre composte da giocatori estremamente difficili da gestire. E come dimostrano i risultati successivi non ha fallito solo lui. Per quanto mi riguarda, probabilmente se mi avesse messo a giocare da ‘5’ sarebbe andato bene lo stesso». Ma come può passare da due anni di inattività all’essere quasi il coach dell’anno in NBA? «Mike ha il Dna del campione, non si ferma davanti alle sconfitte ma anzi, ne trae insegnamento e si evolve. Sono particolarmente contento per lui perché so quanto ci tiene e con quale passione svolge il suo lavoro. Ha una smisurata voglia di insegnare pallacanestro e - ha concluso l’attuale telecronista Rai - di divertirsi facendo giocar bene».


Meneghin: «Maniaco del lavoro, non del sistema»

Gioie e dolori in panchina. Ha avuto stagioni felici con i Phoenix Suns
in coincidenza con l'arrivo in squadra di Steve Nash: pick and roll,
small ball, run and gun. 62-20 il record e Coach of the Year nel 2003
Il coach di Houston è stato spesso additato come fossilizzato su di un unico sistema di gioco. È realmente così? «Mike è sempre stata una persona molto flessibile - ha commentato Dino Meneghin -, non si fissa su di una cosa portandola avanti a qualunque costo. Chiaramente tutto dipende dai risultati, perché se questi arrivano con un modo di gioco allora prosegue, ma se bisogna apportare delle migliorie cambia sistema adattandosi ai giocatori che ha a disposizione. È una persona intelligente e grande conoscitore del gioco, e sa di non dover continuare se le cose vanno male. In NBA è costretto a cambiare registro e ad adattarsi. È testardo in realtà dal punto di vista del lavoro, per il resto è attento a ciò che gli succede intorno». E perché allora non è riuscito a vincere a New York e a Los Angeles? «Quegli anni sono stati difficile perché è estremamente complicato lavorare in quelle due piazze dove già soltanto arrivare secondi è un insuccesso. Ha patito certamente tutto l’ambiente, e il fatto di avere a disposizione dei giocatori che pensavano più a sé stessi che al gioco di squadra, cosa che lui predilige. Mike - ha continuato l’ex presidente FIP - riesce ad ottenere i risultati se ha tra le mani atleti che sanno mettere la squadra al primo posto, che non guardano al tabellino personale. Evidentemente quest’anno ha questo tipo di giocatori che fanno rendere al meglio il tipo di gioco che vuole». Ma per imporsi D’Antoni ha solo bisogno di vincere? «Il sogno di tutti è vincere. In America è quello dell’anello. Per fortuna in NBA non guardano soltanto alle vittorie ma ai risultati che ottieni. La consacrazione arriva se vince, ma puoi avere una buona nomea - ha concluso l’ex Milano - se riesci a far migliorare il gruppo di giocatori, trasformandoli in una squadra vera».




* per la rivista BASKET MAGAZINE

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